VBRRII Interviews: Domenica Prattichizzo

5 Febbraio 2024

Debuttano oggi le interviste di VBRRII. Ogni mese pubblicheremo un colloquio con una figura di spicco della Medicina Riabilitativa e delle scienze a essa collegate. Il primo protagonista di questa nuova serie è Domenico Prattichizzo, Professore di Robotica e Prorettore al trasferimento tecnologico all’Università degli Studi di Siena e Senior Scientist dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova. Il professor Pratticchizzo ci parla de “Il Corpo Artificiale” (Raffaello Cortina Editore), un saggio che racconta due sinergie: quella tra l’ingegneria e le neuroscienze e quella tra lui e il professor Simone Rossi, docente di Neurologia della stessa Università e co-autore del libro. Dalla loro collaborazione, sono nate alcune delle soluzioni di robotica soft più interessanti degli ultimi anni.

VBRRII: Professor Prattichizzo, quella di cui vi occupate è la robotica aumentativa. Di che cosa si tratta?

PRATTICHIZZO: “Per capire che cos’è la robotica aumentativa, devo fare un confronto con la robotica collaborativa. Mi aiuto con un esempio. Se io fossi tetraplegico a causa di una lesione al midollo spinale, e invitassi la mia fidanzata a casa, non vorrei che un robot collaboratore le servisse un drink al posto mio. Vorrei farlo io in prima persona. Preferirei avere degli arti robotici sovrannumerari in configurazione aumentativa al fine di controllarne il movimento per versare il drink nel bicchiere. Grazie a questo esempio si comprende come la robotica aumentativa può consentire all’uomo di mantenere un ruolo primario nell’uso delle tecnologie per eseguire dei gesti. Niente a che vedere con un robot maggiordomo, che esegue da solo ciò che gli chiedo, lasciandomi totalmente estraneo all’azione”. 

Da un punto di vista tecnologico, che cosa serve per creare un paradigma di robotica aumentativa?

L’elemento più importante della robotica aumentativa è l’interfaccia sensorimotoria, che permette di connettere il controllo motorio dell’uomo con il controllo del robot sovrannumerario. Se il controllo fosse di tipo vocale, non ci sarebbe più quell’integrazione tra uomo e robot che invece si può ottenere con un movimento residuo di una spalla, di un braccio o di altre parti del corpo. Dunque, serve un’interfaccia sensorimotoria indossabile che crei un collegamento tra il sistema sensorimotorio biologico dell’uomo e il sistema artificiale del robot in grado di compensare la perdita delle funzionalità. Sia chiaro: non posso mantenere il controllo di tutti i parametri del robot, che quindi deve conservare una certa autonomia, ma solo di alcuni, come per esempio la rotazione del polso che fa scendere il vino nel calice, cioè quelli che mi fanno sentire di avere il controllo diretto del robot”. 

L’esempio perfetto di robotica aumentativa è il sesto dito, giusto?

“È così, ed è una delle invenzioni che amo di più. Nasce dalla volontà di restituire alle persone con una mano paretica, rimasta chiusa a causa della malattia, la possibilità di afferrare degli oggetti. In fondo, basta un palmo e un pollice per stringere un telefono, un foglio o una penna. La nostra idea è stata quella di usare la mano paretica come se fosse un palmo e dotare il soggetto di un pollice robotico sovrannumerario, inserito all’interno di un braccialetto e in grado di srotolarsi all’occorrenza, per opporsi alla mano-palmo e ristabilire la funzionalità di presa”.  

Che effetto ha un sesto dito sovrannumerario sulla plasticità cerebrale?

“Di questo si è occupato a lungo il professor Simone Rossi, che ha confermato quanto ci aspettavamo: il sesto dito robotico viene integrato negli schemi di rappresentazione del corpo all’interno del cervello. In particolare, si fa spazio tra la rappresentazione delle dita fisiologiche e viene utilizzato in tutti i modelli predittivi per il controllo del movimento. Quanto è rapido questo processo di integrazione? Può essere molto veloce, a patto che l’interfaccia sensorimotoria sia programmata in modo ecologico, per esempio permettendo alla persona di chiudere il pollice robotico con movimenti naturali e coordinati di altre parti del corpo”.  

Con un’interfaccia programmata ad hoc, il sesto dito può giocare un ruolo importante nella riabilitazione di una persona che ha avuto un ictus cerebrale?

“Senza dubbio. A causa della disabilità dell’arto superiore, questi individui perdono la capacità di afferrare gli oggetti e con essa la motivazione a muovere il braccio, l’efficacia del sistema muscolo-scheletrico e di quello di controllo cognitivo. Stimolando l’utilizzo del braccio, il pollice robotico aiuta la persona a recuperare almeno in parte quanto era andato perso”. 

A che punto siamo con lo sviluppo delle tecnologie tattili? E perché sono importanti?

“Se le tecnologie tattili fossero degli schermi televisivi, direi che siamo in grado di produrre ottime immagini in bianco e nero. Siamo a buon punto, dunque, ma c’è ancora molto da fare. Sono tecnologie fondamentali per diversi motivi. Servono all’integrazione sensorimotoria della robotica aumentativa come il sesto dito, che non deve solo eseguire dei gesti, ma anche percepire ciò che afferra. Sono utili per le applicazioni di realtà virtuale e realtà aumentata, per la telemedicina e per la comunicazione emotiva. Durante la pandemia da Covid, i malati in ospedale spesso sviluppavano la cosiddetta “skin hunger”, la fame di pelle: mancava loro il contatto fisico, il calore umano. Per questo, la startup WEART che ho co-fondato ha sviluppato un’applicazione che permetteva ai pazienti in isolamento e collegati in videochiamata con un famigliare di percepire sulla propria pelle la carezza che la persona dall’altra parte dello schermo eseguiva su sé stessa”. 

Avete inventato anche delle cavigliere vibranti che aiutano il cammino dei malati di Parkinson. Come funzionano? 

“In realtà, sono nate come uno strumento di comunicazione sociale, che permette a due persone lontane di fare una passeggiata insieme. Quando uno si mette in marcia, la cavigliera invia un segnale che si traduce in una vibrazione ai dispositivi indossati dall’altro soggetto: per riflesso, questo adatta la velocità del suo cammino al ritmo dell’altro”.

Come li avete adattati ai malati di Parkinson?

“L’applicazione alla malattia del Parkinson è stata studiata insieme al Prof. Simone Rossi, esperto del settore. Uno degli effetti di questa malattia è un problema a livello del controllo motorio. In particolare, si verificano delle disfunzioni a livello dei nuclei della base, che sono stazioni di smistamento sulla strada di vie motorie discendenti che hanno come bersaglio, oltre ai motoneuroni, gli interneuroni propriospinali, che contribuiscono a coordinare risposte motorie complesse, come gli aggiustamenti posturali. Una delle conseguenze è il fenomeno del freezing of gate (FOG): durante il cammino, la persona si blocca e, non riuscendo più a sollevare i piedi da terra, finisce per cadere. Per superare l’impasse, di solito si utilizzano stimoli acustici e visivi, come il suono di un metronomo o un pavimento a scacchi bianchi e neri, che fanno da reset cerebrale. Noi abbiamo cercato di applicare lo stesso principio con le cavigliere: grazie a una vibrazione che si alterna da un piede all’altro, restituiamo alla persona il ritmo del cammino. Ma nel nostro caso, lo stimolo è più diretto e, dunque, più facile da percepire”.

Il principio del reset è tornato in un’altra delle vostre invenzioni.

“Esatto. Insieme al professor Marco Mandalà, otorinolaringoiatra e docente all’Università degli Studi di Siena, abbiamo messo a punto un dispositivo per controllare gli acufeni, che nascono da una difficoltà del cervello a interpretare i segnali. Applicata sull’osso mastoide, questa tecnologia genera delle vibrazioni che pur non rientrando nello spettro uditivo, riportano l’attenzione dei circuiti neuronali verso una corretta interpretazione degli input uditivi”. 

Nella contaminazione tra robotica e neuroscienze, che cos’altro serve per dare un ulteriore impulso all’innovazione? 

“Serve una visione di ampio respiro. Dobbiamo imparare a convivere con robot dalle capacità formidabili, ben superiori alle nostre. Se andiamo nelle scale microscopiche, per esempio, uno strumento robotico è molto più accurato di una mano umana; allo stesso modo, l’intelligenza artificiale è più efficace della mente umana nell’eseguire dei calcoli o nel ricordare i volti delle persone. Ma non dimentichiamo che queste tecnologie devono essere funzionali al miglioramento della vita dell’uomo; dunque, dobbiamo collaborare con esperti di etica, filosofi con cui individuare le direzioni più idonee per avere il giusto impatto sulla nostra società”. 

Il progresso tecnologico corre veloce.

“È vero. In passato avevamo più tempo per capire che cosa sarebbe successo. Oggi, invece, mentre cerchiamo di comprendere quale sarà l’impatto di una scoperta, ecco che ne subentra un’altra. A causa di questa velocità gli effetti di queste innovazioni sono difficilmente prevedibili dalla sola mente umana. Ma esiste una soluzione: utilizzare l’intelligenza artificiale per disporre di strumenti predittivi, che affianchino l’uomo nell’individuare le strade giuste dell’evoluzione tecnologica”. 

Quale sarà il futuro della robotica soft?

“Oggi i robot umanoidi sono fatti di plastica e metallo, materiali difficili da smaltire. Nel prossimo futuro utilizzeremo materie prime meno elaborate e più naturali, come i tessuti, che oltretutto miglioreranno l’indossabilità dei robot. Anche grazie a questa innovazione, la riabilitazione farà un ulteriore passo in avanti”. 

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