VBRRII Interview: Iossa fasano
6, Maggio, 2024
Che cosa accade nella mente di chi ha subito un intervento di medicina o chirurgia high-tech? È una domanda che si pongono sempre più medici in posizioni apicali, specialisti in Medicina della Riabilitazione e non. Il primo a farlo è stato Augusto Iossa Fasano, psichiatra e fondatore dell’associazione Metandro, che di questo tema ha parlato in un libro intitolato: Fuori di sé. Da Freud all’analisi del cyborg (Edizioni ETS).
Professore, come rispondiamo alla domanda da cui siamo partiti?
“Oggi sappiamo che protesi ortopediche, stimolatori cerebrali, device cardiaci come pacemaker e defibrillatori, e persino le pompette per insulina e dopamina hanno il potere di cambiare la persona e la sua identità, con ripercussioni potenzialmente importanti sulla psiche”.
In che modo viene coinvolta l’identità?
“L’identità è strutturalmente ambivalente: è formata da qualcosa che resta costante nel tempo e da qualcosa di mutevole, che noi stessi promuoviamo come progressi, avanzamenti, correttivi sul piano morale e su quello concreto, che avvengono nei processi di maturazione e invecchiamento. Quando subiamo un impianto, in questa parte cangiante si inserisce uno strumento artificiale, magari tecnologicamente avanzato, che l’uomo non aveva mai utilizzato prima. Questo porta con sé una grande scommessa che il genere umano non ha ancora compreso del tutto: se prima eravamo mente-corpo, oggi siamo mente-protesi-corpo”.
Come mai questo passaggio può essere problematico?
“Perché l’impianto di una protesi o di un device non è mai solo un atto medico-chirurgico o tecnologico: è qualcosa che coinvolge la spiritualità della persona, le sue relazioni, la sua vita in un raggio di azione che diventa sempre più ampio. È una vera e propria metamorfosi, come direbbe Ovidio: una trasformazione dell’identità, che deve estendersi e comprendere i suoi stessi limiti. La mente deve rincorrere e accettare questa trasformazione, pianificando delle forme di adeguamento fisico e sociale”.
Non sempre ci riesce?
“No, perché la protesi è un elemento artificiale che si unisce a delle parti naturali, facendo di noi un soggetto ibrido: un cyborg, per usare un termine coniato negli anni ‘60 e utilizzato soprattutto negli anni ‘80 dalla filosofa americana Donna Haraway. Inoltre, al di là della fusione tra elementi artificiali ed elementi organici, in tutto questo c’è un elemento che un po’ ci affascina e po’ ci spaventa: è il fuoco dell’elettricità, dell’elettronica e della cibernetica, come per esempio l’intelligenza artificiale. Qualcosa che pensa dentro di noi, accanto e insieme a noi oppure, nella versione più temibile, pensa e agisce contro di noi, contro di me”.
Come si sente chi viene sopraffatto da questa metamorfosi?
Iossa Fasano: “Si sente come molti dei pazienti che vedevo già negli anni ’80 e ’90: ansioso, insofferente, confuso, depresso, impulsivo e con problemi di insonnia. A quei tempi, pur trovandomi di fronte a sintomi che potevano rientrare nelle categorie psichiatriche, ho indagato l’anamnesi di quelle persone e ho scoperto che condividevano un fattore eziopatogenetico come un evento traumatico o una malattia che avevano richiesto l’impianto di una protesi, interna o esterna. Oggi accade lo stesso”.
E dunque non è una classica depressione…
“No, è una vera e propria crisi di adattamento, che può rallentare e ostacolare la ripresa: non consente una restitutio ad integram, cioè il ripristino della condizione di salute di partenza. In pratica, l’intervento di impianto protesico riesce perfettamente sul piano tecnico, ma la persona non torna quella di prima. Per questo, tutti i pazienti a cui viene impiantata una protesi, e più precisamente, ricevono l’innesto di un device interno, per esempio uno stimolatore cerebrale, andrebbero sottoposti a una fase preparatoria e a un follow-up nel tempo. Io ho costruito un modello teorico e validato un test che indirizza la consulenza e l’eventuale approccio clinico chenon necessariamente segue uno schema psichiatrico. Con il dottor Franco Molteni abbiamo impostato un iniziale “Ingegneria psichiatrica” oppure “Ingegneria psico-dinamica”’.
Quanti soffrono di questo mancato adattamento?
“È difficile fare una stima, ma direi che riguarda fino al 15 per cento delle persone che hanno subito un intervento di medicina e chirurgia high-tech”.
È possibile aiutare questi pazienti?
Iossa Fasano: “Certamente. Si può farlo con gli psicofarmaci, che oggi sono efficaci pur con effetti collaterali leggerissimi, e vengono utilizzati anche da medici di base, ortopedici, fisiatri, ginecologi. Ma questi medicinali andrebbero usati con maggiore cautela. Oltre all’intervento psichiatrico, serve il supporto dello psicologo e dello psicoterapeuta. La persona va accolta con il suo dramma. Al contrario, in passato si tendeva a dire: ‘Hai subito un’amputazione, ora hai una protesi. Di che cosa ti lamenti? Sei stato curato!’. Occorre invece riconoscere i traumi che l’individuo porta con sé: traumi che a volte, anche se può sembrare paradossale, nascono dal fatto di avere una seconda possibilità di buona salute e di vita, un problema di abbondanza e di scelte di vita”.
In che senso?
“In passato, di fronte a un tumore o ad altre patologie gravi, al paziente non restava che rassegnarsi, accettando la disabilità e perfino la morte. Oggi, invece, sempre più spesso si può rilanciare la scommessa e la persona si ritrova ad avere un’aspettativa di vita che non immaginava. Ma a questo punto si deve attrezzare a vivere con il corpo che gli resta, e non sempre è facile investire delle energie personali per rilanciare l’esistenza, magari convivendo con una disabilità, una protesi, un device che non si vede, ma c’è. Spesso è più facile rassegnarsi e lasciarsi andare”.
Tanto più il device è impiantato profondamente, maggiore è il potenziale disagio, giusto?
“È così. Gran parte della popolazione accetta le protesi esterne e addirittura le esibisce come se fossero oggetti di design. In questi casi, l’ostentazione estetica diventa una forma di potenziamento dell’identità. La protesi interna dà più problemi perché è invisibile. Non la si può controllare, rimuovere o spegnere e così scatta l’ossessione: ‘Mi farà male?’. ‘Starà funzionando?’. ‘Posso disattivarla?’. Anche se impiantato a fine di bene, un device interno trafigge la persona costringendola a un’azione coatta. Mi viene sempre in mente un giovane di 20 anni affetto da sindrome di Brugada, una patologia molto temibile per la sua imprevedibilità e letalità, che spegneva il pacemaker con una calamita, perché aveva il terrore di avvertire la scarica defibrillante”.
Il punto di svolta qual è?
“Prendere esempio da chi ce l’ha fatta. Spesso queste persone si sono attrezzate con una protesi esterna, qualcosa che le aiutasse a esteriorizzare la loro condizione interna. Faccio un esempio: ci sono soggetti che dopo avere corretto chirurgicamente la miopia decidono di indossare delle lenti neutre, magari con una montatura alla moda. È l’inutile che compensa l’utile. La protesi esterna è dunque uno strumento per far dialogare l’interiorità con l’esteriorità, tirando fuori di noi ciò che è nascosto dentro”.
Lei ha messo a punto un protocollo per aiutare chi soffre.
“Esatto. Si chiama Paradigma Bionico Protesico (PBP) e prevede l’esplorazione di 4 aree della vita socio-familiare e 1 del possibile sviluppo di sintomi, attraverso la compilazione di un questionario che indaga 26 aspetti post-impianto. Abbiamo aperto un campo nuovo: sempre più medici in posizioni apicali chiedono di affiancare il supporto consulenziale di orientamento psicoanalitico alle tecniche chirurgiche e protesiologiche. Non solo. Il Ministero dell’Università e della Ricerca ha accettato di inserire nella scuola quadriennale di specialità per futuri psicoterapeuti due nuove materie: “Teoria e prassi del Paradigma Bionico Protesico” e “Teoria e prassi dei GSI, Gruppi di salute Integrata”. La condizione cyborg, e cioè la comprensione di come siamo e come saremo fatti secondo un modello multi-disciplinare e un approccio a rete, è sempre più attuale”.
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